di: stefanoiovino
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L’anoressia e la bulimia sarebbero delle sindromi culturali, scoperte o forse inventate alla fine dell’Ottocento, ma propriamente medicalizzate solo nei nostri anni.
Quando la scarsità delle risorse rendeva le persone accorte e parsimoniose nel consumo del cibo, custodito come bene prezioso e quindi mai oggetto di rifiuto, coloro che volontariamente se ne astenevano venivano considerati come essere strani ed in un certo senso sospetti. In un epoca dove l’unico principio esplicativo della realtà era il Divino, ogni fenomeno poteva essere effetto della volontà di Dio o effetto della sua assenza.
Nel mondo del Sacro l’astinenza dal cibo era intesa come pratica purificatrice che elevava lo spirito al di sopra dei bisogni della carne, un modo per patire come Cristo, per essergli più vicini, per nutrirsi del suo stesso “cibo spirituale”. Viceversa, la dimostrazione di forza che la digiunatrice faceva propria pareva attingere ad un’onnipotenza non umana, era il segno inquietante dell’intervento di forze demoniache.
Così digiuno, emaciazione, assoluto controllo del corpo e dei propri bisogni, possono essere allo stesso tempo segni di possessione diabolica, di ascetismo o di anoressia a seconda dell’epoca in cui siamo.
Sono molti gli elementi di analogia nei vissuti personali che tuttavia ricorrono, pur in epoche così diverse:
- Il bisogno di frustrare i bisogni del corpo;
- Il piacere tratto dalla privazione;
- Un senso di onnipotenza e di sicurezza nelle proprie capacità;
- L’aspirazione alla perfezione e quindi anche all’ immortalità;
- Il raffronto continuo con un immagine ideale di sé;
- Il rifiuto della normalità del vivere nella continua tensione verso una realtà altra ecc.
L’anoressica non riesce mai a liberarsi completamente del proprio corpo, ogni imposizione, ogni rinuncia è dettata da un Io rigido ed intransigente che opera a servizio della perfezione di se stesso. E’ “amore” di sé, mai di Altri, raggiunto per assurdo mediante atti autodistruttivi. Nell’anoressia l’individuo ha bisogno di appropriarsi della vita in modo paradossale, attraverso l’intensificazione di tutte le sensazioni corporee, ha bisogno di esistere per contrasto e per eccesso; inoltre, la paura delirante di ingrassare e il rapporto problematico con le proprie dimensioni e fattezze non smettono mai di “alimentare” la mente anoressica.
Tutto è vissuto nella tensione della perfezione, tutto è preso alla lettera e perseguito caparbiamente: essere “in linea”, infatti, vuol dire stare con il proprio corpo entro la linea, sulla soglia di separazione tra la vita e la morte, sulla quale fermarsi in perfetto equilibrio, senza che si prevedano cadute né in un senso né nell’altro.
All’interno del mondo dello spirito anche questo aspetto si configura diversamente: il confronto con la morte è qui continuo, ricercato e desiderato in quanto mezzo per la perfetta congiunzione con la trascendenza.
La prima descrizione clinica ufficiale è invece quella del medico inglese Richard Morton che nel 1689, in un suo trattato, riportò una sindrome da deperimento di origine nervosa, caratterizzata da perdita di appetito globale, senza febbre né tosse, né respirazione alterata, accompagnata da amenorrea, stitichezza, estremo dimagrimento, attività incessante della paziente ed un vero e proprio rifiuto verso qualsiasi cura.
Gull nel 1868 descrisse in giovani donne una malattia caratterizzata da emaciazione, amenorrea, iperattività, e coniò il termine “Anorexia Nervosa”. Egli suppose che la mancanza di appetito fosse da attribuire ad uno stato mentale morboso, suggerendo per la guarigione l’allontanamento dall’ambiente familiare.
I primi casi di anoressia secondo il concetto moderno vengono descritti da Lasegue in Francia nel 1873 (che la definisce Anoressia Isterica). Egli scrisse che le ammalate affermavano di non essersi mai sentite meglio, né mostravano volontà di guarire, e sottolineò anche le relazioni patologiche con la famiglia, intuendo così due aspetti fondamentali della malattia. E’ in questo periodo che compare l’elemento diagnostico cruciale dell’anoressia: la paura morbosa di ingrassare nonostante l’emaciazione fisica.
Attualmente nella clinica le manifestazioni del disturbo alimentare non sono altrettanto limpide quanto le etichette diagnostiche utilizzate per designarle: in moltissimi casi comportamenti di tipo anoressico e di tipo bulimico tendono a sfocare gli uni negli altri o a cedersi il posto in una sorta di “zig zag.In realtà il “progetto” anoressico coincide con quello bulimico: il traguardo è in entrambe le condizioni il raggiungimento della magrezza (e non di un semplice corpo magro). Proprio quelli che i clinici definiscono “sintomi” rappresentano una realtà, per chi li vive, un “progetto di autocura”, una strategia per il raggiungimento dell’obiettivo. Anche l’anoressia e la bulimia sono una scelta e perfino una autocura: il rifugio nel sintomo consente di sfuggire ai pericoli, alle minacce, ai dolori che rendono intollerabile la vita, in nome di un ideale di onnipotenza, di distacco, di autonomia assoluta.